Il rimorso del peccato

Il romanzo prende le mosse da un triste fatto realmente accaduto nel corso dell’autunno 2010 e che in parte coinvolge l’autore in prima persona: la pubblicazione è prevista nel corso del 2012.

di Massimo Messa

(2012)

PREFAZIONE  (di Antonio Chargé)

LA TANA DEL RETTILE

E’ in noi, nella nostra mente. E’ il nostro lato oscuro, il punto nero in mezzo al bianco, il rovescio della medaglia dell’essere uomini.  E’ quella porzione del nostro cervello abitata da un rettile, l’essere infido che si nasconde in ognuno di noi, pronto a prendere il sopravvento ad ogni occasione propizia.

Negarne l’esistenza non serve: conoscere il nemico è la prima regola per non esserne sopraffatti.  Tuttavia la capacità umana di compiere il male stupisce sempre, disorienta. La cronaca non è avara di azioni e fatti di fronte ai quali ci si chiede: “ma come ha potuto farlo?”.

Nella cornice di una Milano di fine autunno, quello del 2010, già in livrea invernale, un uomo si trova a confrontarsi con i grandi temi: il Bene e il Male, la Coscienza, la Vita e la Morte. E’ un uomo fortunato, realizzato: un’età matura raggiunta in ottima forma; un passato professionale tutt’altro che privo di soddisfazioni, sfociato a tempo debito in un presente da pensionato ricco di interessi, di amicizie, di affetti.

Ma anche quando guardi il mondo dalla finestra di una vita riuscita, come diceva una canzone di alcuni lustri or sono, lo vedi per quello che è: contraddittorio, spietato, a volte crudele. Mentre fai colazione nella pace di casa tua, con la compagna di una vita, la radio e la televisione, ti raccontano storie atroci. Mentre trascorri una piacevole serata con gli amici vedi qualcosa che preferiresti non aver visto, che ti costringe a scegliere tra l’opportunità di non interferire con le vite altrui e la lealtà nei confronti di una persona che stimi. Mentre vai a trovare tua figlia e il tuo splendido nipotino, ti trovi di fronte una persona che non ti aspetti, e una storia che non ti appartiene finisce per coinvolgerti, anche solo come spettatore, e ti costringe a confrontarti con realtà spesso meno lontane di quanto si immagini.

Il rettile non abita solo nella mente di chi è capace di uccidere una ragazzina innocente. Il rettile aspetta paziente nel cervello di ognuno di noi, pronto a nutrirsi di tutto ciò che gli permette di crescere, di diventare forte. Tra i suoi cibi preferiti, ci sono il narcisismo e l’egoismo di chi si sente al di sopra degli altri e si arroga il diritto di prendere ciò che vuole, senza esitare nell’uso dell’inganno, della doppiezza, passando con disinvoltura sui sentimenti e sulle speranze altrui. Sulle vite altrui.

Ma il rettile non disdegna altre prelibatezze come l’insoddisfazione, la solitudine,l’illusione, il rimorso.

Irene è giovane, Irene è bella, colta e intelligente. Irene ha un buon lavoro, creativo, stimolante. Irene, però, è sola; insoddisfatta di una vita sentimentale che finora l’ha delusa. Irene, quindi, è vulnerabile. Facile, per lei, subire il fascino del predatore. Facile, per lei, illudersi che sia la volta buona, che finalmente un progetto di vita sia possibile, a portata di mano. Mentre lei sogna, il rettile si nutre delle sue emozioni, le metabolizza, si irrobustisce. Quando i primi nodi verranno al pettine, a Irene mancherà la lucidità necessaria, e prenderà una decisione che non sente sua, che la lacera in maniera irreversibile. Pagherà alle sue illusioni un prezzo che sente già alto ma la cui reale, enorme entità comprenderà solo in seguito. E quando poi le illusioni si infrangeranno contro il muro della realtà, il rettile uscirà vigoroso dalla sua tana, affonderà i suoi denti nel fragile tessuto dell’anima, scaverà caverne in cui l’eco del rimorso risuonerà amplificandosi all’infinito. E la fatica di vivere diventerà insopportabile.

Un Massimo Messa più riflessivo, più introspettivo di come l’abbiamo conosciuto nei suoi scritti precedenti, osserva, attraverso gli occhi di un protagonista che gli somiglia tanto, una vicenda triste di quelle che non fanno notizia, che ci accadono intorno quasi in silenzio, mentre dai media ci giunge arrogante il fragore dei grandi crimini, delle grandi tragedie. Una vicenda tutto sommato non dissimile da tante altre, una piccola storia ignobile di gucciniana memoria. Ma le piccole storie, viste da vicino, ci portano a pensare ai grandi temi, agli interrogativi fondamentali, a stupirci di quanto male l’essere umano sia capace di fare, o di sopportare, a confrontarci con pensieri, azioni, reazioni e decisioni di per sé lontane mille miglia dal nostro modo di essere e di pensare, ma comunque reali, possibili. E’ ciò che si trova a fare il protagonista/autore di questo racconto: osserva, ragiona, medita. Ma al momento opportuno si ferma, senza cedere alla tentazione di giudicare, perché per giudicare bisogna comprendere e, spesso, una situazione o uno stato d’animo non si possono comprendere se non si vivono in prima persona. Il giudizio sul nostro prossimo può darlo solo chi prima abbia camminato nei mocassini (della persona che si voglia giudicare). Lo spettatore si limita a riflettere, a porsi domande e a cercare risposte. Ammesso che esistano.